Tumore del polmone: l’immunoterapia efficace nella “vita reale”
Milano, 29 ottobre 2021 – L’immunoterapia con durvalumab è efficace nel controllo del tumore del polmone in pazienti non “selezionati”, cioè nella pratica clinica quotidiana. È quanto emerge dai risultati di PACIFIC R, lo studio di real life che ha arruolato circa 1.400 pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule in stadio III non resecabile. Sono stati coinvolti 290 centri di 11 Paesi, tra cui l’Italia con 116 pazienti. PACIFIC R ha evidenziato una sopravvivenza libera da progressione con durvalumab di circa 22 mesi. Buona la tollerabilità: solo il 16% dei pazienti è stato costretto a interrompere il trattamento a causa di un evento avverso e il 27% per progressione della malattia.
Nel 2020 in Italia sono stati stimati circa 41mila nuovi casi di carcinoma polmonare, l’85% riguarda la forma non a piccole cellule, la più frequente. Un terzo di questi pazienti riceve la diagnosi di malattia in stadio III. Durvalumab è già approvato in Italia dopo chemio-radioterapia definitiva per i pazienti con malattia allo stadio III non resecabile ed espressione di una determinata proteina (PD-L1) ≥1%. Lo scorso giugno, al Congresso della American Society of Clinical Oncology (ASCO) erano stati evidenziati, nell’aggiornamento dello studio registrativo PACIFIC, i benefici di sopravvivenza ottenuti da durvalumab, con il 43% dei pazienti vivi a 5 anni. Dal Congresso della European Society for Medical Oncology (ESMO), che si è svolto lo scorso settembre, è arrivata una nuova importante evidenza. I vantaggi dell’immunoterapia non si limitano alle sperimentazioni cliniche controllate, ma sono riscontrabili concretamente nella vita reale.
“Si tratta di dati significativi, che evidenziano le importanti implicazioni dell’immunoterapia a vantaggio di una categoria particolare di pazienti che, sebbene candidata alla guarigione, per lungo tempo non ha beneficiato di nuove opportunità terapeutiche – chiarisce Diego Signorelli, oncologo all’Ospedale Niguarda di Milano -. PACIFIC R ha permesso di confermare il ruolo di durvalumab come gold standard anche nella pratica clinica quotidiana, quindi in una popolazione di pazienti non selezionati con criteri rigidi come quelli adottati nello studio registrativo”.
Al PACIFIC R hanno, infatti, partecipato pazienti con carcinoma polmonare localmente avanzato non resecabile, che avevano precedentemente svolto trattamento chemio-radioterapico concomitante (in circa il 75% dei casi) o sequenziale, diversamente da quelli coinvolti nello studio PACIFIC, in cui criterio di selezione prevedeva l’esecuzione di chemio-radioterapia solo in concomitanza. Inoltre, PACIFIC R prevedeva l’inizio della terapia con durvalumab entro 90 giorni dalla conclusione della radioterapia, mentre nel PACIFIC era contemplato un intervallo massimo di 42 giorni.
“Sebbene il lavoro in ‘real life’ confermi l’attività di durvalumab anche in una popolazione diversificata e non completamente sovrapponibile a quella arruolata nello studio registrativo – chiarisce il dott. Signorelli –, è importante che in ambito clinico si rispettino, quando possibile, i criteri previsti dallo studio e, quindi, si prediliga un trattamento chemio-radioterapico concomitante rispetto a uno sequenziale e si somministri durvalumab entro 42 giorni dalla fine della radioterapia. Nello studio registrativo, inoltre, l’efficacia del farmaco è risultata ancora maggiore per i pazienti che avevano potuto iniziare l’immunoterapia entro 14 giorni dal termine del trattamento radiante”.
“Un aspetto su cui lo studio PACIFIC invita a riflettere è la necessità che i pazienti con carcinoma polmonare localmente avanzato siano valutati sin dalla diagnosi nell’ambito di un’equipe multidisciplinare – conclude Diego Signorelli -. Accanto all’oncologo è centrale la presenza di figure come quella del chirurgo toracico, del radioterapista, del radiologo, del medico nucleare, dello pneumologo, dell’anatomo-patologo. La multidisciplinarietà ha migliorato il trattamento dei pazienti affetti da tumore al polmone, e, specialmente nella malattia in fase localmente avanzata, è indispensabile per garantire il miglior percorso di cura. Una possibilità è anche quella di fare tesoro degli importanti strumenti di cui ci si è avvalsi durante la pandemia, ricorrendo alla telemedicina laddove nel singolo centro non siano presenti tutte le figure specialistiche coinvolte”.
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